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lunedì 20 luglio 2020

Pradella e il borgo di San Giacomo o del Leone Vermiglio a Mantova – La città della terza cerchia

Manto di luna

Pradella e il borgo di San Giacomo o del Leone Vermiglio a Mantova – La città della terza cerchia

Di Anastasia Malacarne

La zona di Corso Vittorio Emanuele II a Mantova, storicamente denominata Pradella, è stata di recente oggetto di riqualificazione. Ma qual è la sua vera storia?

Le più antiche testimonianze cartografiche relative alla città di Mantova sono due, e risalgono entrambe alla prima metà del Quattrocento: si tratta del noto ciclo di affreschi, di autore ignoto, realizzato nel duecentesco palazzo detto “Masseria”, attiguo al Palazzo del Podestà a Mantova, probabilmente al tempo del primo marchese Gianfrancesco Gonzaga (1407-1444), e della mappa del territorio veronese su pergamena, anch’essa di autore ignoto, conservata nell’Archivio di Stato di Venezia, in cui, nel riquadro inferiore destro, è rappresentata la città di Mantova alla fine del ‘300, attorniata dalle acque del Mincio, con i sobborghi di San Giorgio e Porto. Entrambe le immagini rappresentano i passaggi di ingresso alla città: nella pergamena veneziana compaiono il ponte dei Mulini, il ponte di San Giorgio, porta Cirexe (Cerese) e porta San Jachomo (Pradella). Nell’affresco della Masseria si ammira la città cinta da mura, con le quattro porte d’ingresso identificate da scritte in caratteri gotici: porta de San Zorzo, porta dell’Acquadroso, porta Cereso. Manca l’indicazione della porta Mulina. Qui, per la prima volta, compare la città completamente circondata dai laghi, con il Lago Paiolo e l’isola del Te, e il Migliaretto.




Soltanto a seguito dei lavori di sistemazione idraulica affidati dal Comune di Mantova ad Alberto Pitentino nel 1190, lo sviluppo della città raggiunse il limite del Rio, il canale che ancora oggi taglia in due Mantova e che costituì il nuovo confine cittadino. Nel corso del XIII secolo venne realizzata una nuova recinzione suburbana, in sostituzione di una serie di argini e terrapieni che in epoche precedenti fungevano da riparo dalle frequenti inondazioni del Mincio. Tra il 1240 e il 1242 furono costruite la porta dei Folli (dal XVI secolo Porta Cerese) e quella dell’ Acquadrucio, che diventerà in seguito porta Pradella.
La zona a destra del Rio divenne dunque un nuovo sobborgo, corrispondente all’attuale Corso Vittorio Emanuele, detta “borgo di San Giacomo” per la presenza della chiesa omonima, immediatamente al di là del Rio, accanto alla porta delle quattro porte poi denominata Leona. Il Borgo si estendeva tra quest’ultima e la porta dell’Acquadrucio. La precedente denominazione “dell’Ospitale” richiamerebbe un ospitale fatto costruire da Matilde di Canossa attorno al 1080, dove successivamente il Comune di Mantova avrebbe costruito la detta porta nel 1119, poi demolita per costruire, nel 1242, nell'ambito di lavori di fortificazione della città, la nuova porta dell’Acquadrucio (da Acquae ductum, ovvero un fossato o acquedotto). Ai piedi delle nuove fortificazioni e della porta dell’Acquadrucio, scorreva infatti un fossato, a difesa della città, la cosiddetta Fossa Magistrale(?). Appena fuori da questa porta si formò una borgata chiamata Predelle, munita di chiesa parrocchiale dedicata a San Bartolomeo. Per questo motivo nel corso del secolo XV la porta si chiamerà de la Predella, poi Pradella.

Al tempo il borgo non aveva certo l’andamento e l’aspetto odierno: non si presentava ancora come una strada vera e propria, e non era ancora adorno di edifici ai due lati; era piuttosto un agglomerato di povere abitazioni circondate da campi e prati. Da una parte c’erano le braide (dal tedesco “breit”, largo, il termine indica larghi spazi di terra coltivata), dall’altra stalle o recinti chiusi per il ricovero del bestiame, e a metà le tezze, ovvero le case di paglia dei contadini, di cui rimane traccia nel nome di Vicolo Tezze.
Nel Trecento, per il borgo di San Giacomo si affermò la dicitura “contrada del Leone Vermiglio”, a causa della presenza, sopra porta Leona, di un leone di pietra dipinto di rosso.
Con il XV secolo, e in particolare al tempo di Ludovico II Gonzaga, si definirono a Mantova nuove gerarchie sociali, e conseguentemente anche il volto della città si modificò con la nascita di nuove zone residenziali. Il borgo di San Giacomo, grande arteria di transito verso Cremona, assunse sempre più peso quale via di accesso privilegiata ai quartieri di Sant’Andrea, San Giovanni Evangelista, San Simone, San Leonardo e Porto. 
Il borgo si dipanava dalla Chiesa di San Giacomo, a lato del Rio, e dal Palazzo di Francesco Secco dalla parte opposta, oltre alla casa dei Ceresara e a quella degli Aliprandi.
La strada era teatro di ingressi trionfali di principi e cavalieri, che con i loro seguiti sfilavano diretti verso il cuore del potere gonzaghesco; è dunque comprensibile la volontà dei signori di Mantova di abbellire un ingresso di rappresentanza rivestendolo di edifici altrettanto prestigiosi e invitando famiglie di rango a stabilirvisi. Oltre a ciò, tra Quattro e Cinquecento, al tempo di Francesco II Gonzaga, qui si correva il palio “alla lunga”, dalla porta dell’Acquadrucio fino alla chiesa di San Giacomo, occasione che portava ulteriore pregio al luogo.
Oltre Casa Secco si ergeva la dimora della nobile famiglia degli Strozzi, seguita da quella dei Pellicelli, dignitari della corte gonzaghesca. Anche la famiglia Mainoldi, mercanti della lana stabilitisi a Mantova agli inizi del Quattrocento, avevano scelto questo quartiere per la propria abitazione, che aveva stupito anche il cardinale Francesco Gonzaga mentre transitava, nel 1464, in quei pressi. Anche gli Adelardi, cortigiani gonzagheschi, e I Serra, giureconsulti, abitavano nel borgo del Leone Vermiglio, così come i Riva, antica schiatta che dimorava da quattro secoli nel luogo dove in seguito sorse la Chiesa di Sant’Orsola. E ancora, il Palazzo Bonatti, raro esempio quasi intatto di elegante residenza nobiliare quattrocentesca.




Nella prima metà dell’Ottocento, all’interno del nuovo sistema di fortificazioni della fortezza di Mantova, si avvertì l’esigenza di fortificare Porta Pradella. L’opera venne affidata al bresciano Giovanni Cherubini, e i lavori si protrassero dal 1847 al 1850. La porta fu realizzata in forme neoclassiche, con un avancorpo dotato di quattro semicolonne di ordine dorico coronato da trabeazione e sovrastato da un attico che fungeva da copertura del retrostante tetto del fabbricato. La muratura presentava parti a bugnato alternate a parti lisce. I prospetti laterali si presentavano privi di decorazioni, mentre i locali interni a volti erano intonacati, e il passaggio centrale conduceva ad un ponte, un tempo levatoio.



Poco più di un secolo dopo, la porta era già giudicata inutile ed indecorosa, non adatta come fondale al corso poiché decentrata rispetto al corso stesso, e non funzionale al traffico: così la delibera del Podestà del 1939, che portò, nel giro di un solo anno, alla demolizione di Porta Pradella, pur con l’intenzione, da parte del Ministero dell’Educazione Nazionale, di ricostruirla in asse rispetto al corso. Si conservano ancora le immagini della numerazione dei vari conci costituenti la porta, prima della sua scomparsa. Le parti di scarto vennero destinate alla realizzazione di terrapieni e strade in Valletta Paiolo; gli altri materiali avrebbero dovuto essere accatastati nei prospicienti giardini in attesa della ricostruzione, ma vennero invece portati a Belfiore e lì lasciati in stato di abbandono e alla mercé di chi se ne appropriò indebitamente. Quelli successivamente portati sulla rotonda di Largo Pradella sono gli unici pezzi rimasti a testimonianza dell’opera ottocentesca.


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