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martedì 11 maggio 2021

ZUCCHERO

 Di Claudia Zerbinati


Vi siete mai interrogati circa l’origine della caramella?

Charles Spence, professore di psicologia sperimentale all’Università di Oxford ed uno dei massimi studiosi della gastrofisica - la scienza che studia il rapporto tra il cibo ed i nostri sensi – ha dimostrato come  il piacere che proviamo nel gustare un determinato cibo passi attraverso i diversi organi di senso. La bontà di un cibo non dipenderebbe solo dal sapore ma anche dal suono, dal colore, dalla forma, dal profumo, dal peso e, non ultimo, dal nostro umore. Gli studi antropologici hanno scoperto che le culture possono differire molto nella preferenza per il gusto amaro, aspro o salato, ma la predilezione per il dolce sembra essere universale. Questo vale anche per molti animali e non c’è da stupirsi poiché la natura immagazzina l’energia negli zuccheri e, del resto, il latte materno è dolce. 

La pratica di dolcificare alcuni cibi è antichissima: il miele, grazie al fruttosio che contiene, è stato il primo dolcificante nella storia ma, sebbene fosse il più utilizzato, non era tuttavia l’unico. Nell’antico Egitto viene utilizzato nelle focacce, al pari di uva passa, datteri e fichi. Tale è la predilezione per un dolce fritto nutrita da uno dei faraoni più ghiotti, Ramses III, da farsene  scrivere la ricetta sulle pareti della tomba, così da poterlo gustare anche nell’aldilà. 

Gli antichi romani amano profondamente la frutta, ma per dolcificare si servono anche delle pere (conoscendone ben 38 varietà), delle mele cotogne e dell’uva, della zucca e del succo di barbabietola (ritenuto antinfiammatorio ed afrodisiaco), tanto che nella Roma imperiale i venditori di dolci s’incontrano ad ogni angolo: si trova il semplice libum, un tipo di pane dolcissimo fatto con latte e miele, il globus molto simile ai nostri bomboloni fino al luncunculus, una sorta di bignè. Famosi i crustula, biscotti di frumento venduti per strada dopo le cerimonie sacrificali, usati dai maestri per premiare gli scolari più meritevoli…

Lo zucchero, dal Sanscrito śhárkarā, ovvero sabbia, originariamente viene estratto esclusivamente dalla canna da zucchero (Saccharum officinarum) domesticata attorno all’8.000 a.C. in Nuova Guinea, mentre lo zucchero da barbabietola inizia a diffondersi molto più tardi e precisamente durante il blocco delle importazioni istituito da Napoleone intorno al 1806, periodo durante il quale in Europa si cerca un valido sostituto dello zucchero di canna (che non era possibile importare) e iniziano gli studi sulle barbabietole. Un succo zuccherino ottenuto dalla bollitura e spremitura della canna da zucchero viene prodotto già nel 5000 a.C., poi esportato dai polinesiani nelle Filippine ed in India, quindi in estremo oriente. Gli Inca utilizzano il frutto della lucuma, conosciuto poi col nome di “oro degli Inca”, un simbolo di fertilità e abbondanza per le sue peculiari virtù terapeutiche impiegato nelle celebrazioni sacre in onore della fertilità e conoscono inoltre la stevia, all’epoca chiamata “erba dolce”, così come gli Aztechi usano la Tzonpelic xihuitl, la lyppia dulcis chiamata parimenti “erba dolce”, mentre nell'America Latina  sono state rilevate tracce storiche del X secolo a.C. attestanti la lavorazione della canna da zucchero.

Quando i Greci ed i Romani vedono lo zucchero per la prima volta, durante alcune esplorazioni, non possiedono un nome esatto con cui descriverlo, così usano una serie di appellativi, paragonandolo al sale o al miele, come ad esempio “sale indiano” o “miele di canna”. Nel 327 a.C. Nearco, uno dei generali di Alessandro Magno porta la notizia che nei territori orientali si trova un “...miele senza bisogno di api e dal quale si estrae una bevanda inebriante”. 

In Europa lo zucchero di canna deve attendere a lungo: è già noto ai Persiani di Dario I nel 510 a.C., che avendone colto le spiccate proprietà energetiche ne estendono la coltivazione a tutto il Medio Oriente. Avendo una scuola medica molto avanzata mettono a punto il processo di cristallizzazione del succo di canna in forma solida, per poterlo conservare senza che fermenti: fanno asciugare lo sciroppo estratto dal vegetale su larghe foglie producendo cristalli che si conservano a lungo. Il “sale arabo” o “sale dolce” diviene così trasportabile e commercializzabile, facendo la sua comparsa grazie all’espansione degli Arabi in Occidente, dopo il IX secolo a.C., in Spagna ed in Sicilia. Importato dall’Oriente, dove la farmacopea ne esalta le eccezionali proprietà riservandolo agli Imperatori, in piccole quantità ed impiegato quasi esclusivamente per scopi terapeutici, lo zucchero, a causa della difficoltà della coltivazione della canna da zucchero alle nostre latitudini, è una merce rara e costosa, tanto da essere venduta nelle botteghe di farmacisti come medicamento da usare con parsimonia. Introdotto nel 996 a Venezia, che con le sue 100.000 libbre ne diviene presto il maggior emporio commerciale europeo, viene classificato insieme alle spezie (pepe, noce moscata, macis, zenzero, cardamomo, coriandolo, zafferano etc), che consentono alle carni di essere meglio conservate, insaporite, rese più varie e meglio digeribili, in una parola impreziosite. Nell'XI secolo, le Repubbliche Marinare lo importano con il nome di “sciroppo dei saraceni” e le Crociate ne contribuiscono alla diffusione: per il “miele senza api” si esigono tuttavia pedaggi pari al trasporto dell’argento, basti pensare che un carico di 100 tonnellate di zucchero vale oltre un milione di euro odierni. Nel corso del Duecento, inoltre, Federico II di Svevia provvede a far coltivare la canna da zucchero in Sicilia (dov'era già stata introdotta dagli arabi). 

Molto cambia con la scoperta dell’America poiché il Nuovo Mondo, grazie al suo clima tropicale, permette coltivazioni intensive della canna da zucchero, portata per la prima volta da Cristoforo Colombo dalle Canarie spagnole a Santo Domingo nel 1493: da qui il primo carico di zucchero si dirige in Europa nel 1516. In seguito alla colonizzazione, francesi, portoghesi e spagnoli cominciano a farne commercio in tutto il mondo.


Nel trattato di gastronomia del 1480, redatto dal mantovano Bartolomeo Sacchi detto Il Platina (in quanto originario di Piadena), il De honesta voluptate et valetudine, le ricette proposte registrano, l’affermarsi nella cucina italiana del gusto dolce e dello zucchero: la “nuova spezia” conservata nei vasi degli aromatari (poi detti speziali o speciali e solo dall’800 farmacisti) che consigliano un impacco di canna da zucchero cotta nella lisciva per rendere voluminose le chiome, tende ad affiancarsi o sovrapporsi a quelle tradizionali.

Combinato assieme alle altre spezie, viene inserito in piatti che non sono né esclusivamente né preponderatamente dolci, nella preparazione degli arrosti, nelle salse di accompagnamento e nelle farciture di carni e pesci, cibi a base di farina di riso e pollo (come il biancomangiare), persino torte salate e bevande. A riprova, ci basta dare una scorsa alle sole vivande in cui compare esplicitamente, in occasione di un banchetto organizzato per 104 invitati, a Ferrara nel 1529, da Cristoforo Messisbugo, al servizio dei Duchi di Ferrara e spesso chiamato a Mantova da Isabella D’Este: “Involtini di polpa di cappone fritti e ricoperti di zucchero; anguille in pasta reale (ovvero di mandorle); animelle di vitello fritte e spolverate di zucchero e cannella; le parti migliori di alcuni pesci arrostite, con zucchero e cannella; pesciolini fritti coperti di salsa dolce con pinoli canditi; sarde fritte con arance e zucchero; pasticci di pasta reale ripieni di riso alla turca, fritti e ricoperti di zucchero; pasticcini di pasta reale ripieni di uova, formaggio e zucchero”.

Spargizucchero

Questo uso poliedrico dello zucchero è testimoniato anche dal celebre scalco Bartolomeo Scappi, che nella sua "Opera" in 6 volumi del 1570 descrive molte preparazioni a base di pasta ripiena, pasta sfoglia, pasta frolla e torte ed ammannisce questi manicaretti: 

“Anatra in salsa di prugne”: “Spiumate che saranno le anatre e nette dell’interiori, levinosi loro i colli e i piedi, e pongasi in un vaso con tanto vin rosso e un poco d’aceto, che stiano coperte, e prosciutto tagliato a pezzuoli, pepe e cannella, garofani, noci moscate e zucchero, cime di salvia e uva zibibbo e turasi il vaso in modo che non possa fiatare e facciasi bollire per un’ora e mezza e più o meno secondo la vecchiezza e la grossezza delle anatre, e cotte che saranno servonsi con il suo brodo sopra e con esse si possono cuocere prugne e visciole secche.”

Piglinosi libbre quattro di pancia di porco fresca, senza cotica, e faccasi lessare di modo che sia ben cotta, e quando sarà cotta cavisi dal brodo, e lascisi rifreddare, e battasi minutamente con i coltelli. Abbiasi altrettanto di zinna di vitella ben cotta, e battasi con essa, e una libbra e mezza di carne magra di porco giovane mezza arrostita allo spiedo, ovvero lessata con la pancia, e quando sarà battuta ogni cosa insieme, mettavisi una libbra di cacio parmigiano grattato e un’altra di cacio grasso […], otto once di zucchero, un’oncia di cannella pesta, tre quarti di pepe, tre altri tra garofani e noci moscate, sei once di uva passa di Corinto ben netta […] e poi monda e pesta nel mortaio, otto uova fresche battute e zafferano abbastanza, e come sarà fatta tale composizione, abbiasi una sfoglia di pasta fatta come il sopradetto e faccianosi gli anolini piccioli come fagioli o ceci, e congiunti con i loro pizzetti in modo che siano venuti a foggia di cappelletti.”

Per secoli rimane un elemento di potere e distinzione delle classi nobili che lo adoperano spolverato sulle pietanze più impensabili o modellato in sculture per impreziosire i propri banchetti, divenendo una vera e propria decorazione. 


Nel Rinascimento la cucina dei principi adotta definitivamente lo zucchero, spesso al posto del miele, inventando i CONFETTI - conficere significa confezionare - un segno di distinzione con il quale si chiude ogni convito importante: l’esterno è un guscio in zucchero e l’interno vede l’impiego di erbe, spezie e semi d’anice. Proteico, digestivo – aumenta i succhi gastrici accelerando la digestione delle carni, la farmacopea lo prescrive addirittura contro la peste – rimane a lungo appannaggio di speziali e confettieri. All’inizio del 1507 sia la duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia, che la marchesa di Mantova, Isabella d’Este, sono incinte: sono entrambe ghiotte delle specialità del napoletano Vincenzo Morello, noto come Vincenzo spetiale (cui Isabella esprimerà il desiderio di “un albarello di noci confette in zuccaro”): i cedri CANDITI. La canditura, procedimento conosciuto già dagli antichi, che la effettuavano con il miele e lo sciroppo di palma, adempie perfettamente alla necessità di conservare i cibi. I canditi sono il risultato dell’operazione di canditura della frutta, consistente nella sua prolungata e ripetuta immersione in una soluzione di zucchero resa via via sempre più satura con il riscaldamento. Nella lingua italiana il termine candito potrebbe evocare il “candore” dello zucchero raffinato, ma in passato la denominazione oscilla tra “candito” e “condito” e questa variante ha anch’essa un’evidente giustificazione semantica. In ogni caso l’origine della parola sembra sia da ricercarsi nel “qandi”, termine arabo che indica il succo di canna da zucchero concentrato. Infatti, anche il procedimento della canditura, come accade per altre tecniche dolciarie, si ricollega alla diffusione dello zucchero nel bacino del Mediterraneo ad opera degli Arabi. In passato si candivano vari fiori e frutti, ma soprattutto gli agrumi. 

Anche la COTOGNATA (zucchero, mele cotogne ed acqua) bollita ed essiccata in stampo, intagliata, riessiccata vicino al forno e resa traslucida bagnandola con acqua, poteva essere modellata in statue, mentre la CONSERVA/AGRO di CEDRO era una confettura a freddo, con succo di cedro/limone colato su zucchero scaldato, soprattutto come ristoro dalla calura estiva.

Con il termine MARMELLATA si intende una preparazione (in origine di mele cotogne) semisolida dolce a base di agrumi e zucchero e cotta a lungo. Denominate CONFETTURE, permettono di conservare la frutta e lo zucchero le impreziosisce ulteriormente.

Ad acquisire una posizione sempre più dominante è il TRIONFO: una scultura effimera in zucchero che adorna la tavola o la credenza delle corti aristocratiche. Di queste sculture in merce deperibile, nessuna copia è giunta purtroppo fino ad oggi: solo alcuni disegni ed incisioni, che ne attestano l’importanza e la diffusione di Corte in Corte, tanto che in un documento gonzaghesco si riferisce di un banchetto descrivendo la “Tavola quale era apparecchiata belissimamente con piegature galantissime essendovi, torri, homini, fiere, piramidi et altre cose….”e specificando “come vedrà Vostra Altezza dalla anessa carta stampata”. 

Le prime notizie risalgono al Quattrocento dove il trionfo è ampiamente usato, come al matrimonio dei genitori d’Isabella D’este, Eleonora d’Aragona ed Ercole I d'Este, celebrato a Napoli nel 1473. Queste spettacolari opere d'arte hanno lo scopo di abbagliare e sorprendere gli ospiti: tenute bianche o dorate e dipinte con vari pigmenti, potevano anche contenere altri dolciumi. L'obiettivo era anche di imitare la creazione artistica locale come al matrimonio fra Costanzo I Sforza e Camilla d’Aragona nel 1475 a Pesaro dove «furono portati tazze e piatti di zucchero tutti buoni da mangiare, dorati e dipinti, come se fussero stati vasi di maiolica o damaschino». Nel 1487 al matrimonio di Lucrezia Borgia ed Annibale Bentivoglio celebrato a Bologna, i commensali ricevono doni in zucchero. Nel febbraio 1488 Elisabetta Gonzaga intraprende il viaggio che la conduce sposa al Duca d’Urbino: dopo esser stata cresimata dal Patriarca di Aquileia e vescovo di Ferrara, i festeggiamenti procedono sino a notte: alle ore ventiquattro viene portato “zucchero lavorato a forma di castelli, nave, animali, uccelli e altre cose”; giunta a destinazione tra i tanti festeggiamenti un rinfresco con dolci bellissimi (descritti) e confetti lanciati da tre uomini entrati nella sala con una barca. Beatrice d’Este scrive nel 1493 a Ludovico il Moro, suo consorte, riferendo di aver visto 300 statue alla tavola del Doge. Nel 1514 Isabella d'Este narra direttamente al marito Francesco II Gonzaga del suo soggiorno a Roma e a Napoli: qui partecipa assieme alla famiglia reale al matrimonio della figlia del Marchese di Bitonto con il Conte di «Benaphri» e riporta come la sala del palazzo adibita alle nozze sia addobbata di arazzi, di panni bianchi e gialli, ma anche di festoni con le armi dei Marchesi di Mantova e le imprese della stessa Isabella d'Este e come al banchetto nei piatti siano state servite vistose composizioni di zucchero, riproducenti le armi di tutti i signori presenti, e ancora una volta anche le imprese della Marchesa.

I trionfi possono essere classificati in due tipologie: sia come creazione singola (armi dell'ospiti, fiori, papi, figure allegoriche, pavone, putti e corone d'alloro, etc) o come creazione complessa (carro trionfale, castelli con uccelli vivi, scene mitologiche, scene marine, palazzo reale, etc). I trionfi di zucchero sfruttano la modellabilità dello zucchero: in “zuccari in forma di castello” vengono tenuti volatili poi liberati per stupire gli ospiti. I trionfi sono ornamenti, edibili ma anche supporti per pietanze nei banchetti, sorte di alzatine o vere e proprie stoviglie per i servizi da credenza. Possono essere fusi in stampo o soffiati (come una sorta di vetro trasparente). Più è bianco maggiore è il valore. Colati negli altiforni, era uso regalarne dopo la tavola di Corte al popolo. Ne restano incisioni, che attestano il passaggio dei modelli di Corte in Corte, e 47 stampi in legno e metallo, in uso fino alla fine del ‘700. Le sculture in zucchero vengono ideate dallo scultore (per esempio Gian Lorenzo Bernini ne idea di alte due metri per quando Papa Alessandro VI riceve Cristina di Svezia) e dal cuciniere di Corte e poi colati con la medesima tecnica della fusione a cera persa. 

Alessandro Farnese sposa nel 1563 Maria del Portogallo: 3000 pezzi in zucchero raccontano del viaggio della sposa all’interno di un palazzo di zucchero nero illuminato da candele. Vincenzo Gonzaga per il matrimonio con la tredicenne Margherita Farnese fa realizzare un unicorno, un drago, un elefante ed un cammello, mentre suo figlio Ferdinando organizza per la moglie Caterina De’ Medici una cena a Concordia con sirene tra le onde marine. 

Tuttavia, la scenografia zuccherina più famosa si svolge a Venezia il 25 luglio 1574, quando il Doge Alvise Mocenigo, offre nella sala dei pregadi (del Senato) una “bellissima collatione di 300 figure di zucchero” al Re di Francia Enrico III: tutti e trecento i pezzi vengono modellati in uno zucchero talmente bianco da rassomigliare al marmo, con tanto di cartellino descrittivo su ciascun oggetto (il pane, la tovaglia, le salviette - il tovagliolo prende anche un compito ornamentale con piegature spettacolari codificate nei trattati inamidati appunto con acqua e zucchero o gesso - i taglieri) ed il sovrano anziché consumarle le porta con sé. Le sculture di zucchero, dorate e verniciate, consistono in più di trecento figure allegoriche, alte una trentina di centimetri, poste a ornamento della tavola e modellate dallo speziere Nicolò della Cavaliera. Il gruppo più complesso e maestoso raffigura una regina seduta tra due tigri, con una corona in testa ed altre due nelle mani, recante sul petto le armi di Francia e di Polonia. Il resoconto puntuale di tale evento viene riportato in tutte le Corti europee, a partire da quella del rivale Imperatore Massimiliano II d’Asburgo. 

Più esclusivo è l’evento, più elaborate ed eccessive diventano le sculture: per renderle più realistiche (e per nascondere la tonalità brunastra o rossa dello zucchero), le figure e le strutture possono essere dorate con foglia d’oro, altre dipinte in diversi colori (con la cocciniglia o la bieta si ottengono toni ramati, bronzati o verdi), persino rosa: la Marchesa di Mantova Isabella D’Este scrive a Giovanni Battista Stabellino, detto Pignatta, “Io desidero di far far del zuccaro rosato…”, chiedendogli la ricetta per farne uno buono come il suo e dicendosi pronta a dargli in cambio qualsiasi cosa possa esserci di suo interesse a Mantova.

Il 16 marzo 1502 Isabella scrive al marito Francesco Gonzaga da Venezia “Illustre Signor mio, mando alla Excellentia Vostra el pesse in la inclusa lista, quale prego voglia goder per amor mio: Marzapani octo grandi dorati, Scatolette 29 de confecto de più sorte, Pignatte due de Sirupo violato, Pignatte quatro de Zenzerverde….” 

I MARZAPANI sono dolci fatti con zucchero e pasta di mandorle, insaporiti con acqua di rose, eventualmente colorati con zafferano per renderli “dorati” o con altre “tinte”, spesso confezionati in varie forme, a rappresentare vere e proprie piccole sculture; le 29 scatole di “confecto” possono riferirsi sia a confetti, cioè semi, pinoli o spezie rivestiti di zucchero, sia, più probabilmente, a “confectioni” di zucchero e mandorle di questo tipo. Ci sono poi lo sciroppo di viole, lo zenzero verde e tutte le delicatezze dell’epoca.

Le declinazioni dello zucchero non sono tuttavia ancora terminate: nel 1588 il Vescovo di Nicomedia da Roma ringrazia Eleonora De’ Medici per “le rose confette et zucchero filato che sono stati di molto gusto”. Lo ZUCCHERO FILATO ha già fatto la sua comparsa (il “pubblico” per averlo disponibile deve attendere il 1906, quando, a Udine, appare con il Circo di Buffalo Bill). 

Nel 1591 avvisano Vincenzo Gonzaga che “una nave partita per Calicut (Calcutta) s’è persa et si dubita anco che di quelle bande non verranno altri vascelli di modo che il pepe ascenderà gran prezzo…et li corsari d’Inghilterra hanno preso li 17 vascelli che partirono di Marsiglia per andare a Lisbona carichi di verzino (pianta tintoria), zuccari, bambaso (tela di filo di bambagia): il Duca non sarà certo lieto nell’apprendere queste “amare” notizie, temendo di certo un terribile rincaro. Un chilogrammo di zucchero costa già 240 ducati.


1596 Vincenzo Gonzaga e la moglie Eleonora De’ Medici, vengono ricevuti al Palazzo Ducale dal Doge Marino Grimani con “una sontuosissima colazione offerta, con confetture di diverse figure humane, d’animali e pesci tutti di zucchero”. Nel 1608 il loro primogenito, il Principe di Mantova Francesco Gonzaga, in occasione del suo matrimonio con l'Infanta Margherita di Savoia, banchetta assieme ai Cardinali, i Principi e le Principesse in un piccolo casale di sua proprietà lontano da Mantova circa due miglia: il tavolo, la credenza e la tovaglia sono fatte di zucchero così come le salviette, i coltelli, le forcine, i piatti e gli oggetti son talmente ben riprodotti da sembrare veri.

Nel 1622 al Palazzo arciducale di Innsbruck per le nozze di Eleonora Gonzaga e Ferdinando II D’Asburgo, un sontuoso banchetto vede la tavola arricchita da due “apparati” di zucchero: uno raffigurante la prospettiva di un giardino e l'altro una montagna (con piante, frutti, animali) da cui scaturiscono due fontane di acqua profumata. 

Nel 1683 dopo il fallito tentativo turco di conquistare Vienna, interi sacchi di zucchero e soprattutto caffè vengono abbandonati: la moda del caffè (anche come rimedio contro la sifilide) si diffonde e con esso l’uso dello zucchero. I turchi abbandonarono, tra l’altro, dei sacchi contenenti dei grani di uno strano colore verde, tanto che gli austriaci lo scambiarono per cibo per cammelli (il caffè non era tostato): quelle cinquecento libbre le chiese come ricompensa un informatore polacco che aprì il primo Caffè, che ebbe successo solo dopo che vi fu aggiunta una miscela di crema di latte, miele e zucchero; pare invece che l’invenzione del “cappuccino” si debba a Padre Marco d'Aviano, frate cappuccino di origini friulane al quale il Papa affidò la missione di mettere d’accordo i re cristiani per fermare l’avanzata dell’Islam. Di fatto lo zucchero impreziosisce un’altra gustosa novità ideata dopo questo evento bellico, il croissant, che in francese significa “crescente” (cioè “luna crescente”, mezzaluna, simbolo delle armate turche sconfitte).

Nel 1649 Carlo II Gonzaga di Nevers, per la sua festa nuziale di 20 giorni con Isabella Clara d’Asburgo, nella sala delle virtù al Palazzo Ducale di Mantova, fa realizzare ad Emilio Sacchetti, a mano senza l’ausilio di stampi, un allestimento in zucchero (su di una solida impalcatura in legno e cartone tanto è il peso), con tanto di fontana da cui sgorgava acqua. Saranno chiamati dai Nevers a Mantova quadraturisti bolognesi per lavorare le statue di zucchero: da lì proviene anche il celebre Bartolomeo Stefani che “con maraviglia, varietà, velocità, economia ed utilità” conduce i banchetti di corte per Carlo II Gonzaga. Nel 1655 per ricevere Cristina di Svezia, nel suo terzo soggiorno a Mantova, si chiama Luigi Federici, mastro pasticcere, che entrerà poi a far parte del suo seguito.

Ma non è solo nelle corti italiche che si stupisce con lo zucchero: Enrico VIII d’Inghilterra, riceve gli ambasciatori di Carlo V e la Cronaca è narrata dal nunzio apostolico presso l’Inghilterra a Isabella d’Este: “7 ore di orlogio a tavola”, 2 righe dedicate alle vivande con la scusa che “stracara scriverle tutte e centomila” (si menzionano tuttavia “trionfi di marzapane e zucchero come liofanti, pantere e lioni, tute le salse di pesci, confetti ovvero confetture, gelatine, carni e torte”: il tutto esposto in modo da comporre elaborate figure, come un cinghiale composto in forma di storione, maiale in forma di castello o presentando le novità come le “galine de India”, ovvero le faraone).  


Il ruolo ottenuto darà una spinta notevole all'arte culinaria, permettendo la nascita della pasticceria europea come arte autonoma, anche grazie al connubio di zucchero con cacao, con latte e con caffè.

Da Milano nel 1611 ci si scusa nello spedire alla corte di Mantova oggetti preziosi, per la mancanza delle “Peparole et Zuccarare”…

La caramella ha in ogni caso origini molto antiche: in India nel IV sec. a.C. si producono pezzetti di zucchero di canna solidificato chiamati khanda (da cui l’inglese candy) ed i Crociati sette secoli più tardi fecero ritorno in patria con alcune barrette di zucchero di canna, che chiamano canna mellis.

P.S. per i golosi di MERINGHE: l’invenzione viene attribuita a Marie-Antoine Caréme, dunque bisogna attendere l’800!