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sabato 13 febbraio 2021

La primadonna degli scacchi


di Claudia Zerbinati

Gli scacchi, dal provenzale e catalano antico escac, che discende dal persiano Shatrani ( شاه shāh, ovvero "re") e che a sua volta deriva dal più antico Chaturanga, praticati in India già nel VI secolo, giunsero probabilmente in Europa verso l'anno 1000.


Con ogni probabilità questo avvenne grazie alla mediazione degli Arabi che li portarono in Europa in particolar modo attraverso la Spagna e l’Italia, ove si diffusero già nel Medioevo.



Re Otto di Brandeburgo, Heidelberg, 1320 ca.

Giovanni Boccaccio apprende il gioco degli scacchi a Napoli, alla corte di Roberto d’Angiò e nel Decamerone narra di come nel palazzo in cui raccoglie la lieta brigata di sette fanciulle e tre giovani, tra la narrazione di una novella ed un’altra, questi “si ponessero per lo più a giocare a scacchi”. Gli scacchi arrivati in Occidente prevedono l'uso dei dadi; tuttavia, a causa della censura ecclesiastica che considera diabolico ogni tipo di gioco che preveda il ricorso al caso – ovvero il gioco d'azzardo –, si evolvono senza contemplarne più l'uso. Nonostante sia inizialmente contrastato dalle autorità politiche e religiose, (nel 1254 Luigi IX proibisce il gioco in terra francese), il gioco degli scacchi diviene ben presto simbolo di conoscenza e potere e già dal XV secolo divenne il "gioco dei re", praticato da sovrani quali Enrico I, Enrico II, Giovanni I e Riccardo I d'Inghilterra, Filippo II e Alfonso II di Spagna, Ivan il Terribile, zar di Russia.
 

Favoriti anche dal successo avuto nella cultura cavalleresca, come nel poema allegorico ispirato al Roman de la Rose ed intitolato Les èchecs amoreux, in cui l’educazione sentimentale di un principe termina con una partita in cui una nobildonna vince dando scacco matto, gli scacchi sono un simbolo dell’amor cortese, in cui uomini e donne giocano tranquillamente tra loro e non è infrequente che siano queste ultime ad avere la meglio. Già nelle Mille e una notte, dopo aver perso cinque partite di seguito con una fanciulla greca, il principe Sharkàn esclama “Signora mia, è bello essere vinto da chi è come te!”. La tradizione di organizzare gare di scacchi, che inizia nel XVI secolo, vede prendere forma la figura del giocatore professionista: è solo a questo punto che gli scacchi divengono una sorta di scienza e dunque appannaggio unicamente dei maschi.


Una delle raffigurazioni più antiche, databile tra il XII e XIII secolo, della storia d'amore di Tristano e Isotta, rinvenuta in una sacrestia del Duomo di Como, compare su una piccola borsa a forma trapezoidale, forse un sacchetto in uso per la raccolta delle elemosine


A sancirne l’epoca d’oro è la pubblicazione a Valencia, nel 1475 dei primi trattati a stampa. Lo scacchista Francesch Vicent scrive assieme a due compagni, in onore della Regina Isabella di Castiglia, il Llibre dels jochs partits dels schacs en nombre de 100 (l’ultima copia, segnalata nel monastero benedettino di Montserrat, è stata distrutta nel 1811 quando, nel corso della guerra d'indipendenza spagnola, i soldati francesi trincerati nel monastero, usarono le pagine dell’incunabolo per farne cartucce di fucile), in cui appare consolidato l’uso di una figura chiave, la regina, in sostituzione di un pezzo arabo noto come alferza (una sorta di consigliere reale), differenziando il gioco per la prima volta da quello arabo, dando molte più possibilità strategiche. Che nella Corte d’Aragona e di Castiglia si giocasse a scacchi è ben noto: Colombo si sarebbe guadagnato l’attenzione dei sovrani proprio dando loro un consiglio durante una partita.

Il movimento della Regina “a la rabiosa”, cioè quello di quante si voglia case in ogni direzione, appare anche nel poema di Francesc de Castellví Scachcs d’amor, ritrovato da un gesuita solo nel 1905.

La Regina diviene il pezzo più potente dell’intera scacchiera e gli scacchi rispecchiano l’abilità con la quale i sovrani intrecciano rapporti diplomatici, garantendo lo splendore della Corte.



Pannelli a decorazione di un cassone nuziale dipinti a tempera attorno al 1475, con la Novella dei Giocatori di scacchi, oggi al Met


Stando agli Annali milanesi dal 1230 al 1402, tutti i membri della famiglia Visconti, da Azzone a Valentina, figlia di Gian Galeazzo che in dote di matrimonio con Ludovico di Francia porta, tra l’altro, “una preziosa scacchiera con pezzi e pedine”. Il più accanito scacchista, però, stando alle cronache, è Filippo Maria, che raccoglie anche molti testi sul gioco, conservati nel Castello di Pavia, mentre al Museo Poldi Pezzoli di Milano si conserva una scacchiera di Bernabò Visconti. Nelle piazze di Milano non era raro vedere, sotto costruzioni coperte esposte alla vista dei passanti, i nobili milanesi giuocare a scacchi tra loro e con le loro dame, spesso tenendo accanto a sé i falconieri. La passione continua nel tempo passando agli Sforza: si sa che nel 1472 il ventenne Ludovico il Moro perde ben 30 ducati con Galeazzo Maria Sforza, che aveva appreso il gioco da ragazzino e che quindicenne scrive al padre in una lettera di aver visitato Cosimo de’ Medici e di aver ricevuto in dono, tra altri regali, “un tavoliere de osso con scacchi tucte intarsiate”.



Giulio Campi, La partita a scacchi, 1535: non è una semplice partita a scacchi, bensì una tenzone amorosa, simbolicamente rappresentata nella partita. La tradizione vedeva nel gioco degli scacchi, ma anche nel tric-trac e nella dama, un pretesto per schermaglie galanti, un'allusione al gioco dell'amore


Nel 1508 va in scena in prosa al Palazzo Ducale di Ferrara, la Cassaria, commedia di Ludovico Ariosto; inizialmente compaiono “carte e dadi”, mentre quando viene pubblicata in versi, nel 1531, i singoli giochi hanno un nome:

L'usanze di costor, che ci governano;

Che quando in ozio son soli, o che perdono,

Il tempo a scacchi o sia a tarocco, o a tavole (back-gammon)

O le più volte a flusso (tipo di primiera) e a sanzo (gioco con i dadi), mostrano,

Allora, d'esser più occupati: pongono

All'uscio un servitor per intromettere

Li giocatori e li ruffiani e spingere

Gli onesti cittadini indietro e gli uomini

Virtuosi.

Niccolò III d’Este custodisce nel suo Studio a Ferrara “uno libro de picolo volume de carte de piegora che insegn’a zugare a scachi”; anche i genitori di Isabella d’Este, Ercole I ed Eleonora d’Aragona, nutrono una passione profonda per questo gioco, tanto che del Duca rimane scritto come “Sua Excellentia” stia “troppo tempo” a giocare a scacchi contro il maestro Zoane Lombardo, suo avversario preferito, tralasciando gli affari di Stato, al punto che nel 1478 fa venire appositamente un giocatore spagnolo per una disfida, alla quale assiste con fervore Battista Guarino, uno dei più grandi intellettuali del tempo e precettore di Isabella d’Este.

La Marchesa di Mantova fa venire i migliori giocatori “professionisti” dalla Spagna per giocarci e prendere lezioni, facendosi intagliare i pezzi dai Maestri Campionesi (a volte non mancando di “contrattare abilmente sul prezzo”, come mostrano alcune lettere pervenuteci). Scrive infatti al più famoso milanese, Cleofas Donati, suggerendo alcuni miglioramenti per “l’arfilo” (alfiere) e “la pedona”, complimentandosi “per il cavallo, che non potria esser più bello”. Isabella non si contenta di farsi inviare testi sugli scacchi già pubblicati; nel 1519 l’umanista e teologo Girolamo Vida è lieto che abbia apprezzato il poema composto ed inviatole, e si rimette alla sua volontà circa la pubblicazione, dicendosi disponibile “a mandare a Venezia quanto ha finora composto, affinché sia impresso in quella foggia di stampe d'Aldo piciole”. Si tratta del poemetto Scacchia Ludus, in cui assistiamo ad una mitica partita di scacchi disputata tra Apollo e Mercurio, arbitrata da Giove, alla presenza delle altre divinità. Mercurio, ottenuto il trionfo grazie ad abili mosse d'ingegno, ma anche a trucchi ed aiuti esterni, fa dono della scacchiera alla ninfa Scacchide per sedurla e le insegna le regole del gioco e dal suo nome deriverebbe, secondo l'autore, quello del gioco. Il poema, noto poi anche come Scaccheide, viene pubblicato in oltre trecento edizioni sia in latino sia tradotto nelle principali lingue europee: il testo mira ad evidenziare le elevate doti morali del gioco, in contrapposizione agli altri giochi dell'epoca, come le carte e i dadi.

Del resto, occorre ricordare che la scacchiera stessa, per la sua forma quadrata, viene intesa, fin dalla sua creazione, quale simbolo della terra al cui interno si svolgeva una grande battaglia fra il bene e il male e dove il gioco ha la funzione di insegnare i valori della saggezza, della temperanza e dell’avvedutezza.

Tutte le classi sociali giocavano a scacchi, tanto che nelle osterie il gioco degli scacchi era compagno, assieme ai dadi, di quello dei tarocchi. Forse ebbero un tale successo anche perché consentivano ad una dama ed un cavaliere di potersi appartare senza suscitare scandalo…

Un altro religioso, Fra Luca Bartolomeo de Pacioli, matematico ed economista, riparato a Mantova dopo l’occupazione francese del Ducato di Milano insieme a Leonardo da Vinci, dedica alla marchesa Isabella d’Este un testo scacchistico, il De ludo scachorum: il suo “Schifanoia” (per schivar la noia), volumetto che, dato per disperso, riappare dopo quattro secoli, nel 2006, tra gli scaffali della biblioteca Coronini Cronberg a Gorizia. Secondo alcuni studiosi, i disegni dei pezzi dell’opera del Pacioli, e persino alcuni degli oltre 100 problemi raffigurati, potrebbero anche essere di mano del suo amico Leonardo. Pacioli di scacchi se ne intendeva. Il suo in realtà non è un manuale, ma, come si direbbe oggi, una raccolta di "problemi": finali di partita da risolvere con lo scacco matto in un certo numero di mosse. Ogni problema, uno schemino; centoquaranta scacchiere, oltre millequattrocento pezzi, rossi e neri.



Il rebus di Leonardo nel foglio 12692 di Windsor, 1484-7

A questo testo potrebbe dunque aver messo mano anche Leonardo, che non solo realizza metà dei “diagrammi” con le varie posizioni (lo si evince dal fatto che sono disegnati con la mano sinistra e che riportano le classiche “crocette” di Leonardo), ma che realizza anche dei pezzi di nuova concezione, molto più leggeri e artistici di quelli allora in voga, così singolari ed eleganti, quando, da secoli, le figure dei problemi erano indicate con semplici lettere dell'alfabeto (basti pensare che in ciascuno dei 6 pezzi compare la proporzione aurea, passione e religione di Leonardo: nel rapporto fra i dischi e le aste, fra la "testa" del pedone e il suo "corpo", tra l'altezza e la base), e fatti per essere prodotti in serie!

Quando sposa Alfonso d’Este (che arriverà a crearsi personalmente i pezzi), Lucrezia Borgia non può rimanere estranea alla passione della Corte Estense per il gioco degli scacchi, tanto che decide di apprenderne le regole. “Maestro Francesco Spagnolo maestro di scachi” è al suo servizio nel 1506: era nota la rivalità nei confronti della cognata Isabella, alla quale sicuramente non vuole esser da meno anche nel gioco. Non si dimentichi che i Borgia tra l’altro sono nativi di Jativa, una piccola città proprio vicino Valenza. Di certo non mancavano maestri di scacchi italiani, ma Lucrezia ha voluto ingaggiare il meglio: che fosse proprio uno dei due sopra citati Francesc che, tra l’altro, parlavano la sua lingua natia?
 

Nel dipinto La partita a Scacchi, la nobile pittrice cremonese Sofonisba Anguissola, anch’ella appassionata di Scacchi, testimonia della diffusione del gioco tra le dame.
Caterina de’ Medici conobbe e quasi certamente giocò con un vero campione: Paolo Boi detto “il Siracusano”, colui che si guadagnò la libertà battendo a scacchi i turchi in Ungheria.

Il primo ufficiale campionato mondiale di scacchi fu organizzato solo nel 1886.

Nel 1968 un grande Maestro degli scacchi come Jan Hein Donner sosteneva che le donne non potessero giocare a scacchi poiché, a suo dire, mancavano di una dote essenziale, l’intuizione, mentre per il campione russo Michail Tal la loro esclusione sarebbe dovuta invece alla sostanziale incapacità di rispettare l’obbligo di restare in silenzio.

Eppure, da sempre, la più abile giocatrice è femmina. Chi? Naturalmente, la Morte….