Tradizioni natalizie di principi e di popolo a Mantova
Il Natale a casa Gonzaga
di Claudia Zerbinati
“…questi signori eccellentissimi ambasciatori di Francia et Spagna sogliono ricever certi presenti ogni anno di vino da sua altezza et a Natale con occasione delle caccie se li soleva donare un cignale per uno; io raccordo le bone usanze perché sonno giovevoli ne l’occorrente e conservano la buona dispositione di volontà di questi signori verso gli interessi di sua altezza….” Sono queste le parole che Camillo Sordi, residente ducale dei Gonzaga a Venezia, indirizzata nell’ottobre del 1612 ad Annibale Chieppio, di modo che l’abile consigliere ducale lo rammenti al Duca Francesco IV Gonzaga. Alcuni mesi prima Francesco ha perduto tanto la madre, Eleonora de’ Medici, sorella della Regina di Francia, così come il padre, l’affascinante Vincenzo I Gonzaga: il frangente è dei più delicati, avendo assunto il titolo ducale da una manciata di settimane e dopo che attraverso il matrimonio con Margherita di Savoia si è provato ad avvicinare i due casati e scongiurare un conflitto per il possesso del Monferrato. Ci si preoccupa che egli conosca e comprenda gli usi ed i costumi di corte, dovendosi muovere con passo sicuro nel complesso scacchiere europeo. Il cinghiale è il dono dei potenti in occasione del Natale, tanto ai propri sottoposti quanto ai rappresentanti degli altri casati.
Nel gennaio del 1609 infatti il segretario ducale alla corte cesarea Aderbale Manerbio, riferisce da Praga “…che la vigilia di Natale la maestà dell’imperatore (Rodolfo II) mi fece regalare di un porco cinghiale, come suole da alquanti anni in qua….”
Donare è un atto più importante per chi fa dono più che per chi riceve: si tratta di un vero e proprio istituto politico dai risvolti diplomatici. I donativi, secondo una consuetudine diffusa, vengono descritti nei documenti e nelle relazioni con il relativo prezzo (reale o presunto) a voler sottolineare che si menzionano solo quelli degni della grandezza del potens.
Così troviamo di tutto: pregiatissimi cani e cavalli, stravaganti struzzi e galline faraone, confetti, maioliche e porcellane, vasi, coppe e boccali in cristallo di rocca, posate e candelieri in argento, armi e reliquie, tessuti di brocato, corami e tappezzerie, ampolle con oli de fiori odoriferi, quadri, sculture e ritratti, libri – spesso sacri ma molto meglio se proibiti, scuffiotti (rinomati quelli mantovani), cudeghini e sallamani (salumi), medaglie ma sopra ad ogni cosa…zoie e gemme a profusione. Pendenti di grappoli di pietre dure, croci di rubini, smeraldi, diamanti, vezzi di perle, spille, aigrette, pugnaletti preziosi, bussolotti con balotte de odore, rosette e bottoni, reliquiari punteggiati di pietre e smalti, abiti e veli trapunti di preziosi, orologi da tavolo e da persona, spille, penagini (pennacchi), paternoster d’ebano ed avorio, brazaletti e cinte...
I doni culinari vengono elencati con la medesima rilevanza dei testi sacri….“Havemo ricevuto, insieme con due vasi, il zibibo damascxhino, quattordici libbre di turone, gli quatro libri del Testamento Nuovo et li pistacchi, delli quali, si ben non sono di quella bontà che gli desyderamo, restamo satisfacta”. Isabella d’Este fa incetta per tempo degli ingredienti necessari: pere bergamotte (la sua varietà preferita) e pomi granati, che spesso costituiscono l’ingrediente prediletto per invitanti confetture, pomi o peri codogni per far la codognata per Federico; si accaparra cedri, naranzi e limoni da confettare, così come anche nespoli, noci e persichi, persino meloni ed anguria (raccomandata per i malati): qualunque frutto è buono da trasformare in confetto per il piacere della bocca del principe.
Vincenzo Zucconi, residente Ducale a Venezia riferisce a Vincenzo I il 12 dicembre del 1609: “…”Sua Altezza mi diede ordine per certi pistacchi, quali non sono ancora sbrigati dal Lazzaretto, si spera che prima di Natale potranno havere”. Isabella d’Este non cessava di tormentare il Commissario di Cavriana per amandole e nizole, utilizzate per confezionare marzapane ma anche far parte di piatti dolci o salati, grassi o magri. Le mandorle finiscono in morcelli per lo stomaco (bocconcini dolci con canella, pignoli, zuccaro e garoffolo oltre ad armelle di melone) e mostazzoli (con uovo e farina) ma anche nella limonea dei giorni di magro, una salsa a base di limone, mandorle e cappone.
Non sono solo sono cibi ma oggetti di donativi tra potenti, basti pensare alla persicata lombarda: pesche (vi era la necessità di conservare i cibi, quindi gelatine, cotognate e confetture spopolano, così come i confetti) e zucchero (un prodotto di lusso tanto da esser annoverato tra le spezie dello speziale, tanto che se il Medioevo riveste d’una lamina d’oro tutti i cibi da portare sulla mensa del principe il Rinascimento spolvera di zucchero tanto piatti dolci quanto la selvaggina) tramutati in golosa gelatina.
E i piccoli Gonzaga? Possiamo fare colazione con Federico Gonzaga, dodicenne “ostaggio” del Papa, per la collatione de la Vigilia de Natale: “uno pane de spexie, uno marzapane dorato, pignocata dorata, sei scatole di codognata, una scatolina de terzea (confetti minutissimi), uno pittaro (vaso) de meloni e zuchatti”.
I fanciulli vengono educati sin da piccolissimi, al gusto ed alla bellezza, in modo da coltivarne e ricercarne la compagnia appassionatamente, quasi ossessivamente, in ogni forma, soprattutto attraverso le gioie. I gioielli non sono soltanto monili ad effimero ornamento: costituiscono un distintivo sociale ed una concreta tesaurizzazione da impegnare in caso di difficoltà, che sia una guerra da sovvenzionare, a pagamento di scommesse perdute, o persino in pegno (spesso al Monte di pietà di Verona).
Secondo la tradizione, San Nicola regalò una dote a tre fanciulle povere perché potessero andare spose invece di prostituirsi, così nel Medioevo si diffonde in Europa l’uso di commemorare questo episodio con lo scambio di doni, dolciumi e frutta nel giorno del santo (6 dicembre). I bambini appartenenti alle grandi Casate ricevono in tale ricorrenza splendidi ninnoli: cornetti da appuntare alla veste, rametti di corallo e campanellini d’argento da legare in vita, chiaramente con intento apotropaico, pomander, ovvero contenitori di paste profumate, tanto ad uso sociale quanto terapeutico per allontanare il pericolo di contagi, come si può vedere nel ritratto di Giovanni de’ Medici:
Si tratta di veri capolavori commissionati ad abilissimi orafi, molto spesso fiamminghi, solitamente modellati per i più piccoli in forma di animaletti, come quello eternato sulla manica dell’abito indossato da Eleonora Gonzaga, da Rubens:
Si tratta di una scimmietta che, copiando fedelmente gli atteggiamenti degli uomini, diviene specchio della realtà e specchiandosi a sua volta mette in guardia la piccola, anche se di soli tre anni, dal pericolo della vanitas. Potrebbe essere il monile descritto come “ritrato d’un bambino che scherza con sumioto, stimato scuti 2 lire 12”: la piccola indossa l’ongarina, la veste morbida e sciolta introdotta nel XVI secolo e che consente maggior libertà di movimento.
Due anni più tardi Frans Pourbus, raffigura la medesima fanciullina in un altro ritratto:
si fa sfoggio nuovamente dell’ornamento da testa fatto a stelo d’oro con piccole perle cascanti, simulanti mughetti; questa volta le perle ne ornano anche il collo, a simboleggiare purezza e castità. La scimmietta sembra in questo caso corrispondere a quella descritta negli inventari“ …travestita da venditore ambulante e cammina su un fischietto; sulle spalle porta una cornucopia foriera di doni, che ne fa un’immagine bene augurale” e che potrebbe essere quella “spilla col baboino di diaspro, legato in argento dorato con reporti d’oro et gioie, stimato ducatoni 80”.
Uccelli, animali esotici, fiori e mostri fantastici sono i soggetti principali delle opere di oreficeria del Cinquecento, caratterizzati da una sontuosa commistione di materiali come gli smalti, rubini, perle e diamanti della scimmietta. Molto ricercata è la perla "scaramazza" così amata per la sua irregolarità e che compare nella libellula di manifattura fiamminga, in oro e smalti, con nove diamanti ed 11 rubini, probabilmente appartenuta alla madre della Gonzaga, Eleonora de’ Medici
Ma a rilucere, emergendo meno timidamente di quanto ci si potrebbe aspettare dalla corrispondenza, animando i documenti, sono gli insospettabili, rosette e bottoni:
Il ciclo dell’anno, fino ad un
tempo non troppo lontano da noi, era scandito dalle principali feste del
calendario religioso, che si sovrapponeva ad antichi cerimoniali e credenze
precristiane, legati ai ritmi della natura. La religiosità contadina era intrisa
di elementi magici e pagani, al limite della superstizione. Ogni occasione
richiedeva precisi gesti e riti da seguire, che erano rigorosamente rispettati
per ingraziarsi santi e divinità, al fine di assicurarsi la protezione della
famiglia, degli animali e del raccolto.
Con l’approssimarsi delle feste
natalizie, in campagna si lavorava per proteggere le aie dal freddo con il
letame, e gli alberi con le ultime foglie. L’orto andava ripulito e si
raccoglievano rape e verze, perché “tüte le robe a so temp, e rave verse par
l’Avént” (tutte le cose al momento giusto, rape e verze per l’Avvento). Finalmente
giungeva la Vigilia, e nelle corti le rasdore (le massaie, le reggitrici della
casa) fin dalle prime ore del mattino, dopo aver assistito alla messa, erano in
piedi per preparare per la sacra cena di magro. Si preparava anche la
divinazione, ovvero rituali ancestrali per conoscere le sorti del nuovo anno, ponendo
in 12 scarfoie (foglie) di cipolla un pizzico di sale: a seconda del
grado di umidità prodotto durante la notte, si sarebbe manifestato l’andamento dell’annata
agraria successiva, con indicazioni precise sui mesi più secchi e quelli più
piovosi.
Al momento del tanto atteso convito,
non ci si accostava al magico e santo piatto di tortelli di zucca fumanti se
prima il più giovane della famiglia non lo aveva benedetto con lo spèrgol
(aspersorio) intinto nell’acqua benedetta, che il sagrestano aveva provveduto a
distribuire presso le famiglie durante la giornata. Un altro metodo di divinazione,
oltre alla cipolla, era il ceppo di Natale, quello che in questa serata ardeva
nel camino: tante le fiammelle, tanti i nuovi nati tra gli animali della corte;
le ceneri, da raccogliersi per Santo Stefano, nei campi avrebbero protetto il
raccolto. Anche in questa occasione la tavola non doveva essere sparecchiata
perché durante la notte la casa avrebbe ricevuto la visita dei defunti, che avrebbero
mangiato e si sarebbero intrattenuti davanti al fuoco, portando benedizioni ai
propri cari. D’obbligo per tutta la famiglia la partecipazione alla messa di
mezzanotte, e il giorno dopo tutti di nuovo riuniti attorno alla mensa.
La notte di S. Silvestro, invece, richiama i Saturnali romani. I romani invitavano a pranzo gli amici e si scambiavano miele con datteri e fichi con ramoscelli d’alloro detti strenae, strenne, augurio di fortuna e felicità.
L’usanza dei fuochi d’artificio, dei
petardi e dei falò ha un significato ben preciso: si tratta di simboli
solstiziali, legati alla rinascita del nuovo sole-anno. I botti e i mobili
vecchi buttati dalla finestra simboleggiano anche la cacciata dei demoni. La
mattina i bambini e ragazzi maschi, poiché l’elemento femminile era visto come portatore
di sfortuna, si facevano le questue del “Bunin, bun an” per augurare fortuna e ricevere
regali o soldi. Anche le lenticchie si mangiavano, e tuttora vengono consumate,
per propiziare la prosperità economica, ma sono connesse al ciclo dei morti,
come le fave. Il legame strettissimo con i defunti è un retaggio dell’antica
Roma: i morti non erano da temere, bensì da invocare, per la protezione della
casa e della famiglia, e anche consumare cibi legati ad essi era un rito
propiziatorio molto potente.
La litania ripetuta dai questuanti il primo giorno dell’anno non lasciava
scelta, e rifiutare beni in natura o denaro significava automaticamente
attirare la sfortuna:
Bunin bun an
scampèss sent an
scampèss sent dí
la buna man la n’ ven a mí
Buni festi
buni minestri
bun capun
un sach da furmentun
un sach da furment
dem la buna man che vaga via
cuntent
E s’na dé mia la buna man
un sach de sgala
ca v’copeghi tuti sò d’la
scala.
(Buone feste/buone minestre/buon
cappone/un sacco di granoturco/datemi la mancia che vado via contento/e se non
mi date la mancia/un sacco di segale/che vi ammazziate tutti giù dalla scala)
IN TAVOLA
Il Natale, considerato giorno del
pane, era da celebrare con dolci a base di farina, come panettone e pandoro,
così come Cristo è il pane di vita. La cena della Vigilia era rigorosamente di
magro, con i tortelli di zucca, l’anguilla marinata, cefalo al forno,
pescegatto, mostarda con tosel o balùn, questi ultimi formaggi freschi ottenuti
con le rifilature del formaggio grana. A Natale il cibo rituale sono sempre
stati gli agnolini ripieni di carne (o cappelletti, nel Basso Mantovano) in
brodo e il lesso con cappone o gallina. I dolci tradizionali erano torta
tagliatella, margherita, pan ad Nadal, saorina, fatta con la
schiuma del vin cotto e la zucca. L’origine della tradizione dell’Anello di
Monaco, il dolce natalizio per eccellenza della città di Mantova, la rimandiamo
ad altro intervento, non essendo di derivazione contadina.
A Capodanno si consumavano per lo
più ancora gli agnolini in brodo di cappone, ma a Casalmoro si preferivano i bigoi
con le sardele, mentre a Castiglione il pollo era tabù perché “raspa
indietro” con le sue zampe ed era quindi malaugurante. Si doveva invece mangiare
almeno una fetta di salame o cotechino, essendo il maiale portato a spingere
avanti col grifo e a propiziare l’anno nuovo. Bisognava poi necessariamente mangiare
un po’ di uva bianca perché, ricordando vagamente le monete, portava guadagno.
Buone feste da Manto guide
turistiche
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