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sabato 13 marzo 2021

Semel in anno: il Carnevale a Mantova

Di Claudia Zerbinati

Il Carnevale è una delle feste più antiche, che deriverebbe dalle Antesterie, le Dionisiache greche o dai Saturnali romani, in occasione delle quali si assisteva ad un rovesciamento dell’ordine, in cui le divisioni di classi e gli obblighi sociali lasciavano il posto ai festeggiamenti ed al divertimento, spesso conditi da scherzi e beffe da parte del popolo verso le autorità e da rappresentazioni sceniche di tragedie e commedie. Con il Concilio di Nicea, convocato dall’Imperatore Costantino nel 325 d.C., viene introdotto un periodo di digiuno di quaranta giorni denominato quarantena, ovvero quadragasema, poiché tanti erano stati i giorni trascorsi da Cristo in digiuno nel deserto per prepararsi alla Pasqua: dal mercoledì delle ceneri, per sei settimane, fino al giovedì santo. Nel Medioevo la Quaresima si accompagna a tutta una serie di restrizioni, astensioni, divieti e penitenze: sesso, uso delle armi, spettacoli, teatro, feste e soprattutto il consumo della carne, dalla forte valenza simbolica. E’ proprio questo precetto del carnem levare, che porta alla denominazione del Carnevale, termine il cui uso è già attestato nell’anno Mille. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e la diffusione del Cristianesimo, tragedia e commedia escono di scena, giudicati inadeguati dal clero e meritevoli di scomunica e sostituite dalle sacre rappresentazioni, atte ad istruire i fedeli analfabeti sulle Sacre Scritture attraverso la messa in scena di episodi religiosi. La tradizione medievale identifica nel Carnevale il rinnovamento ciclico, attraverso il passaggio dal Caos alla Cosmogonia. Il più antico carnevale documentato è quello di Venezia: reca la data del 1094, lo scritto in cui il Doge Falier parla per la prima volta di carnevale, riferendosi all’insieme dei divertimenti pubblici che l’oligarchia veneziana intende concedere alla popolazione. Nel 1296 il Senato della Repubblica di Venezia, che dichiara festivo il giorno precedente alla Quaresima, fa del carnevale una festa pubblica che dura circa sei settimane. Dal carnevale di Venezia la tradizione si diffonde in tutte le regioni d’Italia, ognuna con le proprie caratteristiche e peculiarità, ma sempre all’insegna del divertimento, della beffa e soprattutto del mascheramento e travestimento. 

A Mantova, con la marchesa Isabella d’Este ed il suo consorte Francesco II Gonzaga, laddove ogni evento è già occasione di far sistematico ricorso alla più stupefacente delle pompe, di modo che la piccola Corte gareggi in splendore con i sovrani europei, magari superandoli in fastosa inventiva negli “spettacoli d’allegrezza”, il Carnevale trova quindi fertile terreno in cui attecchire. Durante il Carnevale del 1501 vengono scelte le rappresentazioni di alcune opere di Plauto e Terenzio, per le quali la corte gonzaghesca si affida addirittura ad Andrea Mantegna: egli si occupa degli apparati scenici ad ornamento del grande padiglione di legno ad arcate eretto come teatro provvisorio. In questa struttura, simile a un tempio, il celebre artista pone da un lato sei (dei nove) pannelli dei celebri “Trionfi di Cesare”, resi pubblici in quell’occasione per la prima volta, e dall’altro lato sei “Trionfi del Petrarca” andati purtroppo perduti. Francesco II Gonzaga coglie così subito l’occasione per sottolineare il suo titolo di “Novo Cesare”.

 


Terminato il periodo di lutto per la scomparsa del padre Francesco II, Federico Gonzaga è a Venezia dove il 13 febbraio 1519 diviene uno dei 36 Immortali, una delle cosiddette Compagnie della Calza, sodalizi di durata variabile di giovani rappresentanti del patriziato veneziano, soliti riunirsi per organizzare feste pubbliche e private. Ma il Carnevale non termina certo qui per lui, che celebra sé stesso come cavaliere e nuovo signore di Mantova con una grandiosa giostra che si tiene in piazza San Pietro (odierna Sordello) il successivo 19 febbraio, cui partecipano i migliori cavalieri giunti addirittura dalla Francia, attratti dai ricchi premi. “Mandò per le cità di Lombardia cartelli, invitando ogni gentiluomo che volesse venir ad correre sette carrere per amor di dama, che lui cum cinque nobilissimi era per tenir la liza a qualunche venesse, et qual di loro che si portaria melio nella giostra, ultra la gratia et benivolentia che aquistaria de la dama sua, averia anche uno pretio di 100 ducati”: il novello marchese di Mantova “avea per impresa il Zodiaco cum signi notati per stelle in mezo, il pianeta de Venere col suo corpo et cielo tocando le sue piramidal linee, il signo tauro sua propria et amata casa; il motto dice in eadem semper, che perpetuo amor ove ora si trova dimostra. Tutta la sopraveste et saglio erano seminate di stelle d’oro”; segue la rappresentazione scenica dell’Aulularia di Plauto, “un gran convito” ed infine “a son di piffari un dansar molto caldamente et gioiosamente”; il 21 febbraio si assiste poi in Castello alla prima rappresentazione de la Calandria del Bibbiena, ad introduzione di una “lautissima et sumptuosissima cena”, coronata da un ballo che terminerà solo “al levar dil sole”. 

Successivamente, per rassicurare tutti coloro che temono di incorrere in qualche pena mascherandosi in mancanza di licenza, Federico emana pubblica grida il 13 gennaio 1532 desideroso “d'exhilarare li animi di soi suditi”, concedendo che in tutto il dominio ci si possa mascherare e travestire liberamente per tutto il tempo del Carnevale; per quanto concerne il divieto di portare bastoni eccedenti una certa grandezza, rinvia alla grida sulle maschere emessa l'anno precedente e concede quindi a ciascuno “ad darsi honesto piacere”. Nel 1539 precisa che ogni travestimento è permesso, ad eccezione di quelli relativi alla religione.

In occasione del Carnevale del 1542 grazie alla relazione che Ippolito Capilupi fa a Ferrante Gonzaga, possiamo assistere ai festeggiamenti che si sono fatti a Mantova, scoprendo che il cardinale Ercole Gonzaga “Monsignor Reverendissimo” non era certo da meno del fratello Federico: “Ha fatto una festa a cui hanno partecipato una cinquantina di gentildonne fra le più belle e nobili. Prima di cena è stata fatta una moresca, interpreti della quale sono stati otto servitori del cardinale - Volpino, Bendidio, Leale, Hieronimo Negro, il Preposto da Fermo, Carlo Luzara, un credenzero e un palafreniero -. Costoro hanno indossato costumi da pastori disegnati da Giulio Romano: oltre a camicia, calze, giuppone e scarpe, portavano sul capo ghirlande di alloro e pelli nere rovesciate sul capo, per simulare i capelli ricci, e sul volto maschere senza mento, per agevolare i movimenti. Insieme ai servitori era un giudeo vestito da dio Pan con le corna, che portava il medesimo costume. Questi suonava la lira mentre quattro degli altri otto interpreti suonavano altri strumenti (un violone, due liuti e un flauto). La destrezza nella danza, la musica, il canto e i costumi hanno reso la moresca un passatempo bellissimo, che ha meravigliato tutti i presenti; al termine si è tenuto un grande banchetto. Il lunedì è stata recitata la commedia de I Captivi di Plauto, dai chierici del duomo di Mantova, i cui costumi sono stati anch'essi ideati da Giulio Romano e finanziati dal cardinale Gonzaga. Nonostante l'uso della lingua latina la commedia è stata intesa da tutti gli spettatori, grazie ai costumi, alla gestualità dei recitanti e agli intermezzi in volgare. Il giorno di Carnevale si è messa in scena una commedia, composta da un senese e intitolata L'Amor costante, che è stata la più divertente e la meglio recitata del Carnevale. Al termine, l'intrattenimento è proseguito con una festa a casa di Monsignor l'Abate ed infine, Capilupi ricorda che nel giorno di festa è stata corsa anche una quintana.

 


Scrive l’ambasciatore mantovano da Venezia nel 1575 “il Carnevale ogniuno vole vesti da farsi in mascara, così vanno a torle a nollo in ghetto”

Gli attori, solitamente saltimbanchi e buffoni, scelgono di riunirsi in compagnie di una decina di membri, riconosciute dai ducati e basate su di uno statuto che le regolamenta; la novità maggiore è costituita dall’introduzione di due donne attrici. La creazione delle maschere più originali da parte di alcune botteghe consente l’annullamento di tutte le differenze sociali, garantendo l’anonimato. Dalla seconda metà del Cinquecento, però, le maschere del carnevale subirono una contaminazione proveniente da quella che, solo a partire dal Settecento con Carlo Goldoni, sarà definita Commedia dell’Arte. L’uso della maschera determina quelli che divengono i tipi fissi di ciascuna compagnia, con il proprio repertorio di lazzi e la tecnica gestuale, che facilitano la comprensione delle rappresentazioni teatrali e l’immediato riconoscimento del personaggio.

Sempre in viaggio con i loro abiti ed attrezzi di scena, a partire dal Seicento iniziano a pagare tasse elevate, percorrendo in lungo ed in largo l’Italia e spesso l’Europa: i loro palcoscenici sono Roma, Madrid, Parigi, Anversa, Londra, Napoli, Firenze, Ferrara e naturalmente…Mantova. La prima compagnia comica italiana a raggiungere uno stato estero, la Francia, è la Compagnia dei Gelosi, chiamata presso la corte del re nel 1571, in occasione del battesimo di Charles-Henry de Clermont, su invito di Luigi Gonzaga duca di Nevers, terzogenito del Duca di Mantova Federico II Gonzaga. Nello stesso anno, anche la Compagnia di Zan Ganassa si trova alla corte di Francia, presso Carlo IX, figlio di Enrico II e di Caterina de’ Medici: grazie alla sua influenza queste due compagnie verranno richiamate anche negli anni successivi, portando a corte il genere teatrale italiano molto apprezzato e che lo sarà ancor di più grazie al favore che verrà concesso da Enrico IV di Borbone e da sua moglie, Maria de’ Medici, figura sulla quale si tornerà in seguito. 

Raggiungiamo un piccolo abitato poco distante da Mantova, Marcaria, dove nella seconda metà del ‘500 i due fratelli Martinelli, Drusiano e Tristano, sfruttando in scena la loro somiglianza ed una disinvoltura spregiudicata in comune, divengono pressoché indistinguibili, in ogni caso perfettamente intercambiabili. Li troviamo per la prima volta il 7 settembre 1576 ad Anversa, in una compagnia diretta dallo stesso Drusiano: la troupe forse raggiunge le province del nord nei primi mesi dell’anno, in fuga da Mantova in seguito a una terribile epidemia di peste, passando probabilmente per Gand. Oltre ai due fratelli fanno parte della compagnia Vincenzo Sardi, Annibale Pizierardo, Bernardino da Cremona, Jean de Barry, Marrocq d'Avarrone, Vincenzo Belando e tre “dames” non meglio identificate. Potrebbe trattarsi di Angelica Alberghini, moglie di Drusiano e prima attrice ad esibirsi successivamente a Londra (non ci saranno attrici inglesi sino al 1660) ed in Spagna e della mantovana Margherita Pavoli, che, gelosa della primadonna, qualche anno più tardi convincerà un altro membro della compagnia, ad assoldare un sicario affinchè ne sfregi il bel volto.

Curiosamente, il pittore fiammingo Pourbus (Frans il Vecchio ?) dipinge proprio nel 1576 “Commedia dell’Arte à la cour de Charles IX”, oggi al Museo di Bayeux:

Su di un palcoscenico, sul cui sfondo è riprodotta una prospettiva di un paesaggio, sono collocati personaggi dai tipici abiti fiamminghi, tra i quali si distinguono ricchi borghesi al centro e ai lati del palcoscenico: al centro della scena si possono riconoscere distintamente tra gli attori, la figura di Pantalone e quella, alle sue spalle, di Arlecchino, che indossa un abito povero e sgualcito, sul quale sono state cucite delle pezze colorate. Sul viso una maschera nera copre gli occhi e il naso, lasciando scoperta la bocca ai fini della recitazione e in testa un cappello con un corno. Sono tutti elementi tipici dell’iconografia di Arlecchino agli esordi della Commedia dell’Arte che si ritroveranno nella maggior parte delle fonti letterarie: si tratta di Tristano? L’intero gruppo di attori e di spettatori sembra essere inoltre sorvegliato – da sinistra – da un uomo senza maschera, avvolto in un mantello che gli copre il viso: si tratta di Drusiano?

Nel dipinto, in una didascalia a caratteri gialli, su fondo nero, sono citati undici dei venti personaggi presenti nell’opera: «1. POURBUS, peintre, auteur de ce tableau (extrême gauche). - 2. LE ROY CHARLES IX (à gauche les bras étendus). - 3. HENRY duc de Guise (à droit de la femme agenouillée). - 4. CHATERINE de Médicis, reine mère (au milieu, derrière Pantalone). - 5. LE DUC D’ANJOU, depuis Henri III, frère du Roi (au milieu et au fond coiffè d’une sorte de turban clair). - 6. LE DUC D’ALENCON, frère du Roi (tenant la main de Chaterine de Mèdicis). - 7. ELISABETH, mariée a Philippe II, Roi d’Espagne, sœur du Roi (à droite, caressant un chien). - 8. CLAUDE, mariée a Charles II duc de Lorraine, sœur du Roi. - 9. MARGHERITE, mariée a Henri IV, Roi de Navarre, sœur du Roi. - 10. CHARLES, CARDINAL de Lorraine (au premier plan, à droite de Pantalone). - 11. MARIE TOUCHET, maîtresse de Charles IX (à l’ extrême droite et au fond).»

Già passati per Lione, a causa del sacco di Anversa ad opera delle truppe di Filippo II di Spagna, devono poi farvi ritorno: il 26 gennaio 1577 sono infatti segnalati «intrattenimenti recitati da alcuni italiani». 

Per capire i rapporti con la Corte d’origine scorriamo quanto, nel 1580 da Firenze, scrive Drusiano al Duca di Mantova, proprio in merito al Carnevale, …”Sì che se Vostra altezza serenissima vol aver comedianti in Mantova per questo Carnevale, non ci è la meglio compagni de la nostra…però se vole che venimo dia la risposta, o sì o no, al portatore di questa, che sarà mio padre, o in carta o a bocca, ma meglio serà a farlo scrivere volendo che veniamo perchè i compagni verano più volentieri…e questo lo scrivo perché se Vostra altezza serenissima non me da risposta tra un mese noi andiamo a Napoli per il carnevale…”

Dopo l’Inghilterra, sarà poi anche la volta di Parigi ed è proprio nel corso di questo fortunato soggiorno francese che Tristano, sotto l’attenta guida di Drusiano, come reazione al pesante clima di diffidenza creatosi attorno ai comici italiani in Francia, inventa la maschera di Arlecchino. Marchiati come diavoli, prostitute, corruttori della carne e dello spirito, rispondono inventando un personaggio che rappresenta l’incarnazione più compiuta ed estrema di queste stesse accuse. Tristano e i suoi si scatenano alla Foire de Saint-Germain, nel quartiere omonimo, nel carnevale del 1584: Arlecchino al centro di una grottesca rappresentazione dell’Aldilà è proclamato Re dei Diavoli. Vestiti con colori squillanti, adotta per l’occasione non il bergamasco delle vallate, tipico dello Zanni ex montanaro inurbato, ma il dialetto mantovano, tra il veneto, l’emiliano e il lombardo, arricchendolo tuttavia di parole latine, francesi, spagnole, imparate lungo la strada.

A Lione non si dimentichi che risiedono i più importanti banchieri italiane, committenti ricchissimi in costanti rapporti d’affari con le filiali di Anversa. Sarà proprio in questa città che Tristano dà alle stampe nel 1601 Lè Compositions de rhétorique de m. don Arlequin, comicorum de civitatis Novalensis, corrigidor de la bonna langua francese et latina, condutier de comediens, connestabile de messieurs le badaux de Paris, et capital ennemi de tut les laquais inventeurs desrobber chapiaux: non compaiono nè luogo né data, ma viene indicato come "imprimé de là le bout du monde", traducibile come "stampato all'inferno", luogo arlecchinesco per antonomasia, che in tal caso coincide con il quartiere omonimo di Lione, antica sede degli stampatori. Il libro è dei più singolari: una settantina di pagine, per la maggior parte bianche, e alcune incisioni di Arlecchino e altri personaggi della Commedia dell'Arte, opera dello stesso Martinelli. 

I pochi versi che commentano le varie immagini, così come il titolo, sono nel comico pastiche linguistico. Mentre altri attori cercano riscatto morale nella pubblicazione di libri, Tristano Martinelli offre a Maria de' Medici, novella sposa del re di Francia Enrico IV, un non libro: un vero e proprio scherzo "arlecchinesco", la cui unica copia è conservata a Parigi, alla Bibliothèque Nationale de France.

Di successo in successo Mantova resta lontana, come testimoniano alcune lettere dei Martinelli conservate in Archivio di Stato. Nel 1588 scrive Drusiano da Madrid, dove la Compagnia è registrata come “Los Confidentes”, rivolgendosi alla madre Lucia, nomata “madre d’Arlechino”: “È vero ch’io scrivevo di andar a stare a Napoli, ma non potendo però stare in Mantova; ma avendo la grazia io voglio vivere e morire nella mia patria”. Dieci anni dopo Tristano si rivolge a Vincenzo Gonzaga, barattando la propria adesione alla compagnia ducale con la garanzia di una protezione sicura, persino a pena della rinuncia al Carnevale Mediceo: “La saperà come che io son obligato per scritura di andare a Fiorenza al suo tempo, et il serenissimo granduca à volsiuto che tuti si sottoscriviamo. Qui il signor duca anco lui à volsiuto che ci prometiamo per questo carnevale… venendo io a Manto[va] vengo in gran pericolo della vitta mia: dove averei ad esere più sicuro son manco sicuro, et se Vostra Altezza non ci mete la mano in dar ordine al capitano Alesandro, et a un altro che li dirò poi a boca, che mi lasano stare me et mio fratello, che no ne perseguitano più come àno fato per il pasato”. Da questo momento in poi Tristano prende il posto del fratello come punto di riferimento della ditta familiare. 

La definitiva consacrazione per Arlecchino arriva nel 1599: il 29 aprile di quell’anno  Tristano ottiene la nomina a sovrintendente ducale “di tutti li comici mercenarii, zaratani, cantinbanco, bagattiglieri, postiggiatori”, ufficio che sarà addirittura trasmesso ai suoi eredi. Il Re di Francia intanto gli scrive «Arlechin, essendo venuto la famma vostra sino a me, et della bona Compagnia de’ Comedianti che voi avete in Italia, io ho desiderato di farvi passare li monti, e tirarvi in questo mio Regno e così la Compagnia degli Accesi, che riunisce altri grandi attori come Pier Maria Cecchini, raggiunge la Francia.

Quale fosse il rapporto tra l’Arlecchino mantovano ed i potenti dell’epoca lo rivela una serie di missive.

La Regina di Francia si rivolge direttamente a Tristano: “Io prego mio fratello, il Duca di Mantova, di mandarci una compagnia dei migliori comici italiani, che siano costà. Procurate di essere della partita e accomodarvi agli ordini che detto mio fratello giudicherà in proposito e fate che tutti insieme siate a Lione nel mese  di settembre.... Io darò gli ordini al mio Tesoriere....e saprà ben contarvi il denaro pel vostro viaggio, di maniera che voi e la Vostra Compagnia resterete contenti. Non mancate dunque, come non mancherò io. Addio. MARIA”. La De’ Medici, grande appassionata di teatro, si rivela intenzionatissima ad averlo, facendo leva sul Duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, che appella fratello, avendo questi sposato sua sorella Eleonora.

I figli avuti da Tristano vengono tenuti a battesimo dai potenti d’Europa, che sembrano disputarseli, tanto che egli riferisce fieramente alla Corte d’origine come: “io sono intrigato a contentargli tuti tre: io ho pensato, per levare l'ocasione di questo romore di.... et darviene uno per uno a ragion de' gatti, ch'el pare che i figlioli  di Arlecchino siano gatticini da donare....”

Dunque Maria De’ Medici è “Comadre regina gallina (dei Galli)”, suo marito Enrico IV è “Compadre” ma anche la sorella Elisabetta di Borbone Regina di Spagna è “Comadre”; il cardinale Ferdinando Gonzaga è “Compadro gallo della gresta rossa” e suo fratello Vincenzo “Signore Compare et serenissimo signor cugino”; il Duca di Savoia diviene “De su voia”.

Il 4 gennaio 1618 l’Arlecchino Tristano Martinelli acquista un mulino a Bigarello. Al Museo Civico San Sebastiano di Mantova è esposta una lapide, sulla quale si fa effigiare come Arlecchino che, legato da una robusta catena al frutto delle sue fatiche, scaccia i tormenti della fame. “Mi son quel bel molin de Bigarel, aquistat d'Arlechin, comic famos, perche' i so fioi non me manda in bordel, l' ha' fatt un bel pensier da giudicios, essed' homo ch' a' zuf, e' cha' cervel, per ingana qualche gioton vecios, e perchè i boni mai non sia gabba, sott'un fidcommis el m'ha lega. Lettor nof ste a burla che de quest ghene ampla scrittura pero guardev da la malaventura”. Ovvero “Sono quel bel mulino di Bigarello acquistato da Arlecchino comico famoso: perchè i suoi figli non mi mandino in rovina, ha avuto una bella trovata da persona giudiziosa: essendo uomo che ha ciuffo e cervello, per ingannare qualche ghiottone vizioso, e affinché i buoni non siano mai gabbati, mi ha legato in fidecommesso. Lettore non credere che sia uno scherzo, perchè a prova vi è una ricca documentazione. Perciò, guardatevi dalla cattiva sorte.


Acrobatico mercante di teatro, esattore dei Gonzaga con un appalto sulle recite a Mantova, spia ed avventuriero funambolico, l’attore intreccia la sua vita errabonda con la grande storia europea, scampando a pestilenze e ad accuse di eresia, consegnandosi alla leggenda con audaci exploit cortigiani.

Quanto il Carnevale sia irrinunciabile, lo dimostra Isabella D’Este, che nel 1511, a causa della recente morte di Ludovico Gonzaga, Vescovo di Mantova nonché zio del marito Francesco II Gonzaga, deve interrompere i festeggiamenti: nel rivolgersi a Sigismondo Gonzaga non esita a mostrare “tanta collera” per la privazione dei piaceri carnevaleschi, mitigata soltanto dalla notizia che a succedere nella carica episcopale è proprio il Cardinale suo cognato. Si consola poi pensando che tuttavia, non appena saranno celebrati gli offici funebri, sarà lecito «secretamente fare allegreza» per il beneficio toccato a lui e a tutta la casata, tanto da pensare ben presto al Carnevale seguente, avvisando “magistro Martino veludaro” di aver ricevuto le 16 braccia di velluto “a pelo”, esortandolo a finire le altre 19 al più presto, volendo mettere in opera il velluto per il carnevale.

Al consigliere ducale Aurelio Zibramonti riferisce Aurelio Pomponazzi da Praga nel 1579 Rodolfo II d’Asburgo “sua maestà, la quale passò il giorno di Carnevale con quintanate, giostre all’anello et pastorali…”. Anna Caterina d'Austria scrive nel 1583 al fratello Vincenzo Gonzaga da Innsbruck descrivendo le feste di Carnevale, modeste se confrontate con quelle italiane. 

Per il Carnevale del 1621 è Claudio Monteverdi ad occuparsi della realizzazione della composizione per il Duca Ferdinando Gonzaga.

In occasione della festa del Carnevale i signori di Mantova si dedicano a “spassi e piaceri et belissime comedie” che non passano certo inosservati, basta scorrere i mandati di pagamento per le numerosissime torce utilizzate e non mancano di far dono di prelibatezze - come le ostriche fatte giungere da Venezia - esplicitando che le si gustino pel Carnevale.


Il Carnevale contadino

di Anastasia Malacarne

Si comincia a festeggiare in momenti diversi a seconda della zona: nel basso Mantovano inizia con l’Epifania, nel medio mantovano e in città si apre con Sant’Antonio, e nell’alto Mantovano si inaugura con San Biagio. Per tutti si dovrebbe chiudere con l’inizio della Quaresima, il Martedì grasso, ma ogni paese si distingue per le date delle feste paesane e le varie usanze radicate nel territorio: in alcune località può arrivare anche alla prima domenica del tempo quaresimale. Il Carnevale è una tradizione che viene da lontano, proprio come il nome, che deriverebbe da “carni levamen” o “carnes levare”, cioè l’esatto opposto: sollievo dalla carne, o togliere forzatamente la carne. Già nell’antica Roma, infatti, tra febbraio e marzo si svolgevano cerimonie carnascialesche, come le corse dei cavalli dedicate a Marte. L’uso delle maschere, tramite cui si rappresentava l’auspicato ritorno dei morti tra i vivi, risale proprio al tempo di romani e greci.
Anche in questo giorno, come in altre festività particolari, era diffusa nelle campagne mantovane la questua da parte di bambini e ragazzini che, mascherati con quello che il vecchio guardaroba poteva offrire, bussavano alle porte del paese per avere, in cambio di un buon augurio, dolci e piccoli doni. Era il tempo delle burle e degli scherzi, ultime follie prima dell’austerità quaresimale. In alcuni paesi della provincia esiste ancora la consuetudine della sfilata dei carri mascherati, in altri si allestiva l’albero della cuccagna, usanza quasi del tutto scomparsa. La festa senza dubbio più nota e ricca di tradizione nel nostro territorio è però il “Re Gnocco” di Castelgoffredo, con tanto di gnoccolata in piazza, l’ultimo venerdì di Carnevale. 


L’origine della festa risale al 1872. Il re godereccio e ridanciano che ha un forchettone per scettro è il sovrano del paese per 3 giorni, che corrispondono alla durata della festa. L’incoronazione avviene ogni 4 anni ed è sancita dal discorso del re, che si fa burle dei potenti di turno. Immancabile la parata di carri allegorici e la distribuzione di gnocchi in piazza. La figura del Re Gnocco corrisponde al “Rex” dei Saturnali Romani, eletto tramite estrazione a sorte, a cui venivano conferiti pieni poteri per il periodo dei festeggiamenti, che duravano alcuni giorni. 
Parlando di carnevale nel Mantovano non si può però tralasciare il suggestivo Carnasciale Podiense, a Poggio Rusco. La piazza si anima con la sfilata dei carri e la distribuzione di panini con la salamella e vino. L’evento è ispirato al Bestiario Podiense, un compendio di mitologia locale con protagonisti animali da bestiario medievale, ma in chiave contadina. La bestia simbolo è il “Pidrüs”, animale dal grugno suino, testa bovina, orecchie equine ed occhi felini.




A proposito di tradizioni carnevalesche di un tempo, è illuminante ciò che scrive il parroco Carri da Nuvolato di Quistello al Prefetto del Mincio Michele Vismara, nel 1811:

Al Carnevale poi non si vede in tutte le Comuni che l'universal gaudio delle mascare, però soltanto nelli ultimi suoi giorni con feste da ballo, sempre colla licenza della vegliante polizia, denominandosi l'ultima mascherata seppellire Carnevale. Nel paese però di Pegognaga, sotto la comune di Gonzaga, ciò fassi con particolare strepito; cioè, nell'ultimo giorno di Carnevale si vede una numerosa mascherata composta per lo più di uomini di età matura, che nel decorso del giorno si porta ora alla casa di uno, ora a quella di un altro, ove balla per poco spazio di tempo. Un'ora prima che tramonti il sole si trova nella piazza ove balla sino all'imbrunirsi della sera, e questo è ciò che da loro si chiama seppellire Carnevale.
Una cosa quasi simile si vede in Sermide, come pure al Bondeno; in questo luogo però c'è fracasso e disturbo.
Nella Quaresima non si trova che la costumanza popolarmente chiamata di segar la vecchia nel giovedì che segue la metà di essa; questa costumanza però non l'ho sentita praticarsi che qualche volta al Bondanello, però senza chiaso. Più clamorosa è quella che vedesi nel paese di Pegognaga in cui portasi da uomini di età matura un fantoccio per la parrocchia nella mattina sino al declinare del giorno, questuando pane, vino o denari, e circa l'ave Maria appiccandogli il fuoco, intendendo con ciò di aver segata la vecchia; così a un di presso vedesi al Bondeno. Ma ciò che sorprende in questa costumanza è il modo che si tiene dai fornari di Suzzara per antica consuetudine.
Alla metà adunque della Quaresima si attacca alla torre del Castello un fantoccio di stracci rappresentante una vecchia colla conocchia ed il fuso; immediatamente dopo suonato il mezzo giorno, incominciano i fornari a suonare la campana maggiore, come se suonasse a morto, dondolando qui e là la Vecchia, ora inalzandola, ora abbassandola. terminato il suono lugubre, che non è breve, calata a terra, si mette a sedere sopra un asino, ed accompagnata da popolare chiasso fassi vedere per le case del paese e della campagna, questuando contemporaneamente denaro, ova ed altro, fino a tanto che, venuta la sera, si pone sopra un monte di paglia fuori del paese, e le si appicca fuoco, con grandi schiamazzi ed urli, sentendosi come uno strepito d'armi, prodotto da alcune cartucce di polvere, le quali poste ad arte nelle coscie, nel petto e nelle braccia della finta vecchia, vi scoppiano con gran rumore. Terminato questo baccanale si prepara una lauta cena imbandita colla fatta questua, e si mangia e si beve con disonore del sacro tempo di Quaresima, e della ragione istessa contrafatta da quel disordinato convito.

Il racconto dà modo di scoprire qualcosa di sorprendente sulla Quaresima. Il termine deriva da quadragesima, 40° giorno; il periodo comincia il mercoledì delle ceneri fino al tramonto del giovedì santo, prima della messa in coena Domini. Quaranta giorni consacrati alla penitenza, un tempo di strettissima osservanza, con il digiuno, un solo pasto al giorno, la prolungata astinenza dalla carne e dal vino. Solo un macellaio era autorizzato a vendere carne per i malati, dietro prescrizione del medico vistata dal parroco. Proibite le nozze, prescritta la continenza coniugale, interdetta caccia, giochi, divertimenti. Solo una tregua, il IV giovedì dopo le ceneri, il giorno di “mezza quaresima”, quello di cui parla il parroco. Ancora un fantoccio da bruciare e un rituale da compiere, che si celebrava non solo nelle campagne, ma anche a Mantova: la vecchia “bacucca” veniva portata per le vie della città in groppa ad un somarello e poi giustiziata. 
Inutile sottolineare che durante la dominazione austriaca queste festose manifestazioni vennero severamente proibite.

E in tavola...




Sulla mensa delle famiglie contadine, nei giorni di carnevale comparivano diverse minestre in brodo: ris con la tridüra e i figadin, bigui, taiadele, taiadline, maltaià, mariconda… Vocaboli che parlano da soli, che evocano la gioia di trovarsi tutti insieme attorno alla tavola, celebrando le ricorrenze dell’anno attraverso piatti rituali che mettevano d’accordo la pancia con i santi, grazie alle abili mani delle rasdore, che perpetuavano gesti appartenenti alle donne di famiglia da generazioni.
Il trionfo della trasgressione carnevalesca si concretizzava però soprattutto nelle portate dolci del gioedì fritlèr, in particolare quelle fritte, che erano proprie di quella particolare occasione: lattughe, favet (palline che ricordano le fave, legate al ciclo dei morti fin dall’antica Roma), flipùn o fiapòn (dolce nato per riciclare gli avanzi della polenta, semplicemente aggiungendo farina e zucchero), risolin, saltimpansa, sugolo, vin cotto, chisöla, mirtul, ofele, turtlin. Era una festa a cui non si poteva rinunciare, e il Giovedì Grasso diventava quel giorno in cui è lecito fare follie, e concedersi lussi che sarebbero stati impensabili durante il resto dell’anno. Di lì a poco, infatti, la rènga, la campana che annunciava l’inizio della Quaresima, avrebbe suonato inesorabile a spegnere ogni entusiasmo.

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